Lampedusa, terra di speranza. Il viaggio di un seminarista sull’isola

Giuseppe Randazzo, seminarista del Seminario Arcivescovile di Palermo, racconta la sua esperienza sul molo Favaloro, dove approdano i naufraghi, insieme alla comunità intercongregazionale del Progetto UISG Migranti in Sicilia.

Durante i primi giorni della mia permanenza a Lampedusa, avevo definito l’esperienza “inutile”, certamente non nel senso di non utile alla mia formazione o alla mia crescita umana e spirituale, quanto piuttosto perché fa sperimentare una sana impotenza dinanzi al dolore e alla sofferenza immane che questi uomini, donne e bambini sperimentano durante il viaggio verso la speranza; inutilità che spinge a misericordia, cioè che ti fa muovere le viscere al punto da non poter vivere ugualmente tra prima e dopo aver vissuto quest’esperienza.

Certamente, la realtà del molo Favaloro porta in sé una profondissima contraddizione, che forse è insita in tutte le realtà, ma che lì è maggiormente acuita: da una parte si percepiscono il dolore e la sofferenza del viaggio appena affrontato, dall’altra la spensieratezza e il divertimento dei tantissimi turisti che in estate scelgono la bella Lampedusa per ristorarsi dalle fatiche annuali.

Anche all’interno del molo stesso non sempre la realtà è univoca, tanti fattori la influenzano. Qui però non voglio parlare della fatica dei volontari, delle condizioni dei bagni lasciati da mesi senz’acqua, del rischio di automatismo che si può innestare nel vivere come un semplice lavoro questo servizio di cura e pietas, del commercio di vite umane operato da uomini senza scrupoli e carnefici senza cuore d’uomo, delle condizioni disumane a cui sono costretti i migranti durante il viaggio. Non voglio parlare neanche della conseguenza forse più deleteria di ogni migrazione, cioè l’impoverimento del continente africano che si sta svuotando sempre più di giovani e che quindi è destinato a non poter progredire.

Il mio desiderio è invece quello di raccontarvi la speranza di Lampedusa, che diventa anche la speranza per l’Europa e per il mondo. Dinanzi a tanto dolore sembrerebbe non poterci essere nessuna speranza, nessuna possibilità altra, ma solo dolore, frustrazione e rabbia… eppure c’è qualcosa di più nella realtà del molo!

La Croce Rossa, Mediterranean Hope, la comunità intercongregazionale del Progetto UISG Migranti in Sicilia, e tanti altri volontari di diversa provenienza e formazione, sono davvero uomini e donne che amano l’altro. C’è certamente chi lo fa per sola filantropia, ma c’è anche chi nell’altro vede il volto di Cristo a cui tendere la mano, da abbracciare e consolare. Negli occhi di questi giovani e meno giovani volontari sembra esserci una luce, una scintilla che fa ben sperare.

missione a Lampedusa

Coloro che riescono a toccare la terraferma non sono da considerare numeri o delinquenti (come qualcuno vorrebbe far credere), ma esseri umani che non chiedono nient’altro che vivere da esseri umani. Ecco la prima breccia della speranza nel grande muro della paura e della sofferenza: riconoscere l’altro come persona a cui rivolgere un sorriso o asciugare una lacrima. D’altronde nei pochi minuti che si hanno a disposizione al molo non si può fare altro: rendere umana, o almeno provarci, una situazione che è disumana in sé, far venire nuovamente a galla la consapevolezza di quella dignità ontologica che è insita in ogni uomo, in ogni donna, in ognuno e in ciascuno, non solo nei ricchi e nei potenti.

Il secondo bagliore di speranza ha dei nomi: suor Antonietta, suor Angela, suor Rufina, suor Danila e suor Maria. Donne provenienti da più parti del mondo e da congregazioni diverse che si sono ritrovate insieme per vivere dell’inutile potenza di Lampedusa, che poi in fondo è quella di Cristo che ha abbondantemente largheggiato (cf. 2Cor 8,7) nella misericordia, che ha dilatato il suo cuore e ci ha chiesto di amarci gli uni gli altri come lui ha fatto (cf. Gv 15,12), che si è fatto prossimo dei sofferenti, dei bisognosi, degli ultimi del mondo.

Le suore penso incarnino bene l’ideale evangelico della misericordia e quello cristiano della pietà. La chiave di speranza che ricavo è data proprio dal fatto che esistano ancora persone che si commuovono, che compatiscono (cum-patere) così come Gesù si è commosso dinanzi alla morte di Lazzaro (cf. Gv 11,35) e così come ha avuto compassione delle folle che erano come pecore senza pastore (cf. Mc 6,34).

Infine, l’esperienza più bella è stata l’arrivo di alcuni uomini e donne giovedì 11, quando dalla motovedetta sono scesi un uomo e una donna che tenevano in braccio la loro piccola figlioletta:
Chris Merci, una bimba di tre mesi che i genitori hanno chiamato così per ringraziare il Signore Gesù per il dono di questa nuova vita e che hanno intenzione di battezzare qui in Europa. L’arrivo di questa piccola bimba, che certamente denota ancor di più l’atrocità e la grande sofferenza che sperimentano questi nostri fratelli migranti, mi ha comunque infuso una grande consolazione e una provocazione.

La consolazione è data dalla certezza che nel mondo il Signore continua ad operare e ad attirare a sé uomini e donne che si lasciano rapire dal suo sguardo amorevole, nonostante tutto: l’Amore continua ad attrarre tutti a sé (cf. Gv 12,32). La provocazione è duplice: impara a dare priorità alle cose veramente importanti e non alle sciocchezze e sii sempre pronto a ri-centrare la tua vita in colui che è la Via, la Verità e la Vita (cf. Gv 14,6).

Penso che la realtà che si sperimenta a Lampedusa sia impossibile da far capire a chi non la vive. Anch’io prima di adesso avevo soltanto la percezione vaga di quanto accadesse in questa piccola isola siciliana. La verità non sempre è comoda ma sicuramente è reale, e noi cristiani siamo chiamati ad abbracciare la realtà, così come ha fatto Gesù di Nazareth che si è incarnato nella storia ed in una realtà concreta e complessa, amando, proclamando e agendo secondo verità nella carità (cf. Ef 4,15).

Giuseppe Giovanni Randazzo
Seminarista dell’Arcidiocesi di Palermo al VI anno

Foto in copertina: Immagine di pch.vector su Freepik

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