La quarta domenica di Pasqua è conosciuta come la “domenica del Buon Pastore”. Se Gesù non perde nessuno di coloro che il Padre gli ha affidato è perché egli rimane nella relazione con il Padre e in questa relazione di amore entra e abita ogni figlio e figlia di Dio. Questa è la fiducia. Meditazione sul Vangelo a cura di sr. Maria Rosa Venturelli, missionaria comboniana.
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 10,27-30)
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
Commento al Vangelo
La quarta domenica di Pasqua è conosciuta come la “domenica del Buon Pastore”. L’immagine del pastore e delle pecore ha una lunga tradizione biblica. Alcuni personaggi importanti della storia di Israele furono pastori. Per esempio, Abele, Mosè. Davide. Essi furono pastori del loro popolo. Ma tuttavia, è a Dio che si attribuisce la funzione del PASTORE che si prende cura delle “sue pecore” (cfr. Gn 49, 15; Is 40, 11; Ez 34, 5; Sal 23, 1; Sir 18, 13).
Il Vangelo di Giovanni precisa che Gesù pronunciò le parole di questa domenica durante la festa giudaica della Dedicazione del Tempio. Questa festa commemorava la purificazione del luogo e la dedicazione dell’altare dei sacrifici all’epoca dei Maccabei, i quali avevano fortificato la muraglia per proteggere il recinto sacro dalle profanazioni simili a quelle compiute da Antioco IV Epifane (cfr. 1 Mac 4, 52-61 e 2 Mac 10, 1-9). Inoltre Gesù si trovava nel cosiddetto portico di Salomone. Probabilmente questo recinto, cinto di mura e di robuste colonne, giustifica il riferimento che Gesù fa alla protezione che attua sulle sue pecore.
“Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò paura?”
La rivelazione di Gesù quale pastore inviato da Dio, si staglia sul sottofondo di una storia di fallimento dei pastori storici di Israele, cioè delle guide del popolo che sono venute meno al loro compito e hanno badato a pascere se stesse più che il popolo.
Il Gesù che ha guidato i suoi discepoli durante la sua vita itinerante e di annuncio del Regno di Dio, ha formato una comunità, ha fatto di alcune persone eterogenee, in buona parte modeste, a volte litigiose, a volte gelose dei primi posti, una comunità. Di queste pecore volte riottose, alcune deboli, altre forti, Gesù ha fatto il piccolo gregge, capace di essere un segno del Regno di Dio nella storia. E al di là di tutti i miracoli narrati dai vangeli, questo è il miracolo veramente grande, la sconcertante impresa che Gesù ha portato a termine, certo, pagandone un alto prezzo, come Redentore.
Quale autentico pastore, che è Gesù, svela anche quali siano le autentiche sue pecore: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono” (Gv 10,27).
Ascoltare e seguire sono dunque elementi che danno contenuto a quel “credere” che è il legame decisivo con il Signore.
Il fatto che i discorsi di Gesù sul buon pastore siano presentati durante la Pasqua ha comunque un significato profondo. Spiegava così Benedetto XVI, “qui noi siamo immediatamente condotti al centro, al culmine della rivelazione di Dio come pastore del Suo popolo; questo centro e culmine è Gesù, precisamente Gesù che muore sulla croce e risorge dal sepolcro il terzo giorno, risorge con tutta la sua umanità, e in questo modo coinvolge noi, ogni uomo, ogni donna, nel suo passaggio dalla morte alla vita”.
Se Gesù non perde nessuno di coloro che il Padre gli ha affidato è perché egli rimane nella relazione con il Padre e in questa relazione di amore entra e abita ogni figlio/figlia di Dio. Questa è la fiducia.
Vi è nei vv. 28-29 del nostro brano evangelico come un intreccio delle mani per cui la mano di Gesù e la mano di Dio si identificano. Nel quarto vangelo la mano è simbolo dell’amore dato e ricevuto: “Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa” (Gv 3,35); Gesù, “sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani” (Gv 13,3), compì il gesto dell’amore radicale, simbolo del dono della sua vita per i discepoli.
La mano aperta del Padre per donare tutto al Figlio diviene la mano aperta del Figlio che tutto riceve dal Padre e che il Figlio stesso mostra, quale Crocifisso Risorto, a Tommaso affinché egli riconosca al tempo stesso l’amore del Padre e del Figlio: “Mio Signore e mio Dio” (Gv 20,28). E chiedendo a Tommaso di stendere, a sua volta, la sua mano, Gesù gli chiede di entrare nel mistero dell’amore trinitario reso visibile nella mano trafitta.
Davvero, il buon pastore è colui che dona la vita per le sue pecore e proprio in questa donazione e perdita di sé, Gesù, donando l’amore, custodisce le sue pecore nell’amore.
A noi di tendere la nostra mano nel gesto di chi si dispone a ricevere la l’amore del Padre, la sua attenzione a noi, il suo amore misericordioso, in piena dignità e libertà.
Dice ancora Gesù, che nessuna persona che si fida di Lui, nessuno potrà rapirla dalla sua mano. Potremmo accostare questa espressione a quella paolina che dice: “Chi ci separerà dall’amore di Dio?”. Rimanendo in quell’amore facciamo esperienza del dono della Vita che viene da Dio, della comunione con Lui.
Dalla MANO di Gesù, alla MANO del Padre.
Dalla MANO del Padre alla MANO di Gesù
Dalla MANO di Gesù alla MANO di TOMMASO
e in lui in ogni discepolo e discepola di oggi.
Buona domenica a tutti voi!