La fede che salva. Commento al Vangelo

“Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!” La vita e la fede sono doni gratuiti di Dio, che maturano nel cuore di chi sa riconoscere e ringraziare. Dire “grazie” non è solo una parola gentile, ma il segno di una fede viva che vede in ogni cosa la presenza del Signore. Il samaritano guarito torna da Gesù per lodare e ringraziare, e in quel gesto scopre la vera salvezza: non solo la guarigione del corpo, ma la pienezza della vita.

Commento al Vangelo a cura di P. Manuel João Pereira Correia, mccj

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 17,11-19)

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Commento al Vangelo

Al tempo di Gesù, i lebbrosi incarnavano la figura dell’emarginato assoluto. Anche altre patologie cutanee erano spesso identificate genericamente come “lebbra”. Nella Legge mosaica (vedi Levitico 13–14), era considerata un’impurità rituale, non solo una malattia fisica. Il sacerdote aveva il compito di accertare la malattia. Il lebbroso era dichiarato “impuro” e doveva vivere isolato dalla comunità. Questo isolamento non era solo sanitario, ma anche religioso e sociale: si pensava che la lebbra fosse un segno del peccato o del castigo divino. Vivevano fuori dai villaggi, spesso in gruppi e in grotte, sopravvivendo grazie alla carità o alle elemosine lasciate da lontano.

Guariti, ma non salvati

Quando il gruppo, da lontano, grida: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”, i lebbrosi non specificano che cosa desiderano da lui — forse sperano soltanto in un’elemosina. Ma quando Gesù li invita ad andare a presentarsi ai sacerdoti, comprendono che la sua intenzione è di guarirli. Sono proprio i sacerdoti, infatti, a dover attestare ufficialmente la guarigione. Così, fidandosi della parola di Gesù, si mettono in cammino. Perché Gesù si rammarica con certa tristezza e delusione – ben evidenti nella triplice domanda che egli pone – che solo il samaritano ritorni indietro? Non perché si aspettasse un ringraziamento! No, Gesù si aspettava che il miracolo fosse riconosciuto come segno messianico (cf. Mt 11,5 e Lc 7,22). Cioè, che ci fosse una “conversione”, come nel caso della guarigione di Naamàn il Siro della prima lettura: “Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele” (2Re 5,15). In fondo, potremmo dire: ma che male hanno fatto gli altri nove? Obbedivano a Gesù e stavano andando dai sacerdoti. Avrebbero “lodato Dio” nel Tempio, con un sacrificio; avrebbero fatto festa con la famiglia e poi, eventualmente, sarebbero tornati a ringraziare Gesù. Dov’è dunque avevano sbagliato?

In realtà, solo il samaritano, il più segregato del gruppo, ritenuto un eretico, è colui che, come la samaritana al pozzo, riconosce che era arrivata l’ora in cui né sul monte Garizim né a Gerusalemme si adorerà il Padre (Gv 4,21). Solo il samaritano si “converte”. Gesù è il nuovo Tempio, dove si loda Dio, che non solo guarisce il corpo, ma salva la persona in tutta la sua profondità. Gli altri nove sono guariti, ma il loro percorso di guarigione si arresta a quella fisica. Continueranno legati al vecchio Tempio e al suo culto. Uno solo è salvato. Arriva alla fede e riconosce in Gesù il Messia. Per questo Gesù gli dice: “Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!”. Questo episodio è come una parabola che riflette anche la nostra realtà quotidiana. Tutti ricorriamo a Gesù per essere guariti dai nostri mali, ma pochi intraprendono la strada nuova da lui tracciata. Preferiamo i sentieri già battuti, quelli che non ci mettono in discussione.

Alcuni pensieri di approfondimento del Vangelo

  • La vita e la fede in cammino

Il brano del Vangelo di oggi è un testo pieno di movimento: vi troviamo ben dieci verbi di moto. È, in un certo senso, un’immagine della vita, vissuta come un cammino che va dalla nascita fino alla dipartita da questo mondo. Forse nessun’altra metafora esprime meglio il percorso dell’esistenza e della storia. La vita di fede è anch’essa un cammino, che inizia nel battesimo e si avvia — percorrendo sentieri e strade diverse, spesso imprevedibili — verso la meta celeste. Tutto nella fede è vissuto e sperimentato “in cammino”, passo dopo passo, con fatica e perseveranza. Il racconto di oggi può essere letto come una allegoria dell’umanità e della fede cristiana. I lebbrosi sono dieci — un numero che rappresenta la totalità. Tutti e dieci sono guariti, graziati, ma uno solo è salvato dalla fede. Tutti usufruiscono dei doni di Dio, ma pochi ritornano per lodare e ripartire salvati. Dove non c’è gratitudine, il dono si perde, dice il teologo Bruno Forte.

  • Un cammino di “grazie”

La vita e la fede sono innanzitutto caratterizzate dalla gratuità: sono doni. Lo sviluppo di questi doni richiede il contributo di tante mani amorose. Ecco perché “grazie” è una delle parole più ricorrenti nel nostro linguaggio quotidiano. È un movimento spontaneo, anche se talvolta può diventare meccanico. Dire grazie non è una semplice questione di galateo, ma un atteggiamento di vita. Significa concepire l’esistenza non come un “prendere”, ma come un “ricevere”. Se questo è vero nella quotidianità, lo è ancor di più nella vita di fede. Il testo greco dice che il samaritano si getta ai piedi di Gesù “ringraziando”: eucharistōn. In questo verbo compare la parola charis (grazia), da cui deriva eucharistía. Il dire “grazie” diventa azione di grazie, “eucaristia”. Nella Bibbia, il ringraziamento accompagna ogni passo del credente: Gesù stesso agisce continuamente ringraziando il Padre. Secondo san Paolo, la Chiesa è chiamata a essere un popolo che abbonda nel ringraziamento. Nelle sue lettere troviamo innumerevoli inviti a rendere grazie a Dio continuamente, in ogni cosa e in ogni tempo: “Rendete continuamente grazie per ogni cosa a Dio” (Ef 5,20).

  • Una vita senza “grazie” è sgraziata e diventa disgraziata

Dice la tradizione ebraica: “Chi usufruisce di qualsiasi bene in questo mondo senza dire prima una preghiera di ringraziamento o una benedizione commette un’ingiustizia.” L’ingratitudine ci rende insoddisfatti, critici, brontoloni, pessimisti. Dalla logica del dono e dell’accoglienza si passa a quella della conquista rapace, che rivendica, pretende, reclama, diffida… Una vita senza “grazie” è sgraziata, e col tempo diventa disgraziata; infine si tramuta in un “inferno”: il luogo — o meglio la condizione — di chi non riconosce la grazia, si rende incapace di accogliere il dono e, quindi, si rifiuta di ringraziare.

  • “E gli altri nove dove sono?”

È la domanda che Gesù rivolge anche a noi. A noi che, per grazia, “ci siamo”, ritornati a fare “eucaristia”. Penso alle folle lontane dal Padre di ogni dono (Giacomo 1,17), alle nostre chiese vuote, alle famiglie smarrite… Accogliere questa domanda significa avere il coraggio e l’amore di rispondere a Gesù: “Eccomi, sono qui anche a nome loro per dirti: grazie!” Per coltivare la grazia e la benedizione La capacità di ringraziare va coltivata. Ecco un esercizio per accrescerla: Entrare ogni mattina nella giornata non dalla porta esterna del fare, dell’affanno per i problemi da affrontare, delle mille preoccupazioni che ci assalgono, ma dalla porta interiore del cuore: quella della consapevolezza del dono di una nuova giornata, del ringraziamento e della lode. Questo primo passo dà ritmo all’andatura della giornata e ne determina la qualità e il colore — grigio o luminoso. Ci sono infatti due modi completamente diversi di riprendere, ogni giorno, il cammino della vita: entrare nella nuova giornata benedetti e ritornare ringraziando, oppure entrarvi e uscirne sgraziati!

P. Manuel João Pereira Correia, mccj

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