Diario di viaggio. Partire è anzitutto uscire da sé

di Giovanni Parolari *

Era il 5 agosto 2008, dopo una notte insonne e alle prime luci dell’alba le ruote dell’aereo su cui mi trovavo toccavano la pista di quel luogo nel cuore dell’Africa che mai, fino a quel momento, avrei pensato di raggiungere.
A distanza di dodici anni, posso affermare che quel viaggio mi ha lasciato un’impronta indelebile nel cuore.
Il mondo missionario, fino a quel momento, per me non era cosi tanto sconosciuto; infatti nella mia famiglia due miei zii hanno scelto proprio questa strada.
Ricordo che il loro ritorno a casa era sempre una festa e ascoltavo con attenzione i loro racconti.
Ricordo inoltre, negli anni in cui frequentavo l’oratorio della parrocchia, durante il mese di ottobre, che i riflettori si accendono sulle missioni, i missionari e tutti coloro che avevano fatto questa scelta di vita ed era un continuo susseguirsi di incontri, dibattiti, testimonianze di coloro che vivevano e operavano in ogni angolo del mondo. Partecipando a questi incontri, in cui venivano condivise le molteplici esperienze, iniziò a sorgere in me la convinzione di essere “un ragazzo fortunato” e che del resto si trattava di storie e vite lontane dove le parole, le immagini e le testimonianze erano sempre molto toccanti ma le sentivo allo stesso tempo lontane dalla mia quotidianità.
Nel tempo tale convinzione si tramutò nella consapevolezza di voler mettersi in gioco per agire in prima persona anche se in quel momento non me ne resi conto!

Il primo viaggio in Centrafrica

L’occasione per concretizzare questa consapevolezza arrivò nell’estate 2007 quando mia zia, suora clarissa al convento di Bouar nella Repubblica Centrafricana, si trovava in Italia e poco prima di partire, salutandola, gli promisi che l’anno successivo sarei andato a trovarla.
Sinceramente mai avrei pensato di dar seguito a quella promessa, ma lei se la ricordò bene.
Nonostante l’entusiasmo per la nuova avventura l’impatto con quella terra, la Repubblica Centrafricana, uno dei paesi più poveri del mondo e così desolatamente dimenticata da tutti, fu un vero disastro!Mi trovavo quindi, in quell’inizio del mese di agosto, sulla scaletta dell’aereo pronto per scendere e toccare terra; davanti a me vedevo solamente la famosa “terra rossa” e una vegetazione molto fitta (era la stagione delle piogge), Venni investito da quel caldo umido e fastidioso che mi segnava il volto. Mi prese quella sensazione strana, quel pensiero che mi fece dire… “dove sono finito?!”. Desideravo solamente tornarmene a casa, con la convinzione di non essere adatto a quei luoghi.
In quella primissima esperienza ho avuto modo di conoscere i Padri del Sacro Cuore di Gesù di Betharram da cui sono stato ospitato (non potendo restare in convento da mia zia) e con i quali ho avuto modo di percorrere i primi passi in missione.
Da quel primo viaggio durato poco più di due settimane, ne ho vissuti altre due (di cui uno di quasi un anno) in questa stessa terra; c’era qualcosa in me che si era mosso, quel qualcosa che mi spingeva a ripartire, quel qualcosa che non mi faceva più sentire a mio agio là dove sono nato e cresciuto, mi sentivo stretto, sentivo il bisogno di prendere il largo.

L’esperienza come volontario

Decisi quindi di prendermi un anno dal lavoro e partii come volontario. Mi trovai a fianco dei missionari a conoscere le loro storie, le loro scelte di vita, a vivere la loro quotidianità e condividere difficoltà e le gioie quotidiane.
Un piccolo particolare scandiva la giornata ed era il continuo bussare alla porta della missione da parte della gente per i più svariati motivi: cercavano un prete per una confessione, per un aiuto economico, per un po’ di pane; i più piccoli chiedevano un pallone per giocare nel cortile antistante la chiesa, o un semplice bicchiere di acqua.
Mi ritrovai a ricoprire diversi compiti, cercando di essere utile e aiutare i missionari sollevando loro in questo modo di diversi incarichi: trattenersi con i bambini nella missione, seguire gli operai nella realizzazione di nuova cappella di quartiere. Le settimane passate all’ospedale mi hanno segnato notevolmente: un luogo dove ho vissuto momenti molto forti e contrastanti, dove ho visto con i miei occhi quanto è labile il confine tra la gioia di una nuova vita e l’angoscia per una morte accaduta anche tra le mie braccia.Un ulteriore schiaffo l’ho ricevuto pensando di aver da sempre vissuto la mia fede in totale pienezza. Quanto mi sbagliavo. L’incontro con l’altro, in queste terre, mi ha fatto capire cosa davvero possa voler dire l’incontro con il Signore: tutte le domenica la chiesa della missione, cosi come la cappella del villaggio che visitavo, si riempiva e la gente arrivava con gli “abiti da festa”: le donne con lunghi vestiti colorati, gli uomini con camicie con raffigurazioni di santi e qualcuno pure con la cravatta!
Ma era il modo in cui venivano vissuti quei momenti: canti, danzi, e poco importava se si rimaneva li per diverse ore.
Ecco in quell’istante mi sono sentito davvero “povero”; di quella povertà che mai lontanamente pensavo di soffrire e invece mi è apparsa davanti.

Aprire gli occhi e il cuore

Tanti momenti da raccontare, tanti istanti immortalati e impressi nel cuore e nella mente.
È stato come ricevere uno schiaffo che mi ha aiutato ad aprire gli occhi e, prendendo in prestito le parole del teologo e arcivescovo brasiliano Helder Camara, ad uscire da me stesso per “rompere la crosta di egoismo che ci chiude nel nostro io”.
Con questo stato d’animo, una volta tornato, anno dopo anno, ho cercato di mantenere quel contatto con le missioni, aiutandole, iniziando con quel poco che potevo fare se non mostrando foto e video dell’esperienze vissute, non solo per raccontare, ma per cercare di dare voce a chi continua la propria opera missionaria. Che strana che è la vita: in quell’istante sono tornato a quegli incontri nel freddo salone dell’oratorio, ma molti anni dopo toccava a me raccontare e portare la mia testimonianza.
“Missione è soprattutto aprirsi agli altri come a fratelli, è scoprirli e incontrarli partendo da chi ci sta vicino fino ad arrivare in ogni angolo del mondo”.

* Associazione AMICI betharram onlus

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