Scalabriniane a Lesbo, tra i migranti nel Purgatorio delle anime vive

di Giampiero Valenza

La missione ha il sapore della sabbia di un piccolo lembo d’Europa che la politica ha voluto fosse in Occidente ma che è a soli 8 chilometri dalla Turchia. L’isoletta di Lesbo è in questi anni al centro dei flussi di migranti e rifugiati che dall’Africa e dal Medio Oriente passano di lì per cercare aiuto e protezione. Quest’estate, nell’isola, c’è una presenza speciale: è quella delle Missionarie Scalabriniane, suore che sin dalla loro fondazione, nell’Ottocento, hanno come carisma quello della cura dei migranti.

Prima lo facevano principalmente in Europa e in America Latina. Poi hanno avuto un’intuizione: andare lì dove i migranti vivono le loro emergenze, nelle frontiere. Lo hanno fatto a Tijuana, al confine tra Messico e Stati Uniti, nello Stato di Roraima, tra Brasile e Venezuela, a Siracusa e Ventimiglia, in Italia. Ora, grazie a una rafforzata cooperazione con la Comunità di Sant’Egidio, che ha visto in passato il sostegno delle suore per i corridoi umanitari, è iniziata una nuova sfida, quella della missione a Lesbo. Un percorso, che ha il sapore di una sfida ma che viaggia nel solco di quanto ha voluto esprimere Papa Francesco, nel sostenere i migranti del mondo e i rifugiati che cercano aiuto nei Paesi dove si respira la pace.

Due piccole comunità di scalabriniane si stanno avvicendando quest’estate proprio a Lesbo. La prima, partita a luglio, ha avviato il percorso che poi ha visto altre 4 sorelle dare loro il cambio ad agosto. Ma cosa c’è di speciale in questa missione? A dir il vero non c’è una sola cosa speciale, ma ce ne sono 15.000. Tanti, infatti, sono i rifugiati ospitati nell’isola. Molti di loro sono lì da anni, intrappolati in condizioni drammatiche nel campo di Moria: un groviglio di baracche di fortuna che ospitano quegli uomini, quelle donne, quei bambini, in cerca di un briciolo di speranza. Nato per ospitare poco meno di 3.000 persone, ne ha 5 volte di più. È un po’ come il Purgatorio raccontato da Dante: lì ci sono quelli «che son sospesi».

Quel loro stato, invisibile alle istituzioni, rende tutto più difficile. C’è chi si accoltella per il cibo, chi fa scoppiare risse, chi vive in condizioni precarie nelle tende: per terra mangiano e sono costretti a fare i bisogni. La violenza è dietro l’angolo e le donne sono le prime vittime. Qui ci si chiede come sia possibile che l’Europa non concentri la sua attenzione primaria a questi brandelli di mondo. Ed ecco perché Sant’Egidio, le Ong, le suore, sono lì. Dar sostegno a questa che è una ‘comunità-non-comunità’, può essere uno strumento utile per aiutare il pianeta e le sue necessità.

Qui le suore si sono subito messe al lavoro per tentare di rendere più leggero quello che è come un bollettino di guerra. La prima cosa è stata la sistemazione di un vecchio frantoio, rendendolo uno spazio idoneo per la mensa. Poi ci sono stati i diversi percorsi di integrazione, passando proprio da Moria e dalle sue necessità. La situazione è drammatica, disastrosa. Il caldo rende, poi, tutto più complesso. I bimbi, però, non perdono mai il sorriso ma le famiglie sono in uno stato profondo di difficoltà. La missione delle suore è anche questa: cercare di aiutare quei gruppi di uomini, donne e piccoli che insieme fanno famiglia e dar loro l’opportunità di avere forza. Perché il loro viaggio non finisce a Lesbo e non si interrompe qui, a Moria. Il viaggio della loro vita, infatti, continua.

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