Quel numero, tatuato ad Auschwitz-Birkenau, e il coraggio di ricordare

L’incontro con Władysław, sopravvissuto agli orrori del lager di Birkenau. Storie di vita missionaria in Polonia

di Sr. Maria Rosa Venturelli *

Nella riunione a cui partecipavo periodicamente nell’Azione Cattolica (AC) adulti, nella nostra parrocchia di Piastòw in Polonia, c’era un signore già con i capelli bianchi. Aveva un numero tatuato sul braccio. Quando glielo vidi il mio cuore ebbe un tuffo profondo e la mia mente si riempì di mille pensieri e riflessioni.

Pan Władysław Gozoziewicz era stato Presidente dell’AC per tanti anni, l’aveva fondata lui stesso, prima della seconda guerra mondiale, e dopo la fine del comunismo negli anni ’90 l’aveva rifondata. Abitava non lontano da noi, aveva moglie e figli. Era stato formato dall’AC e gli insegnamenti ricevuti lo avevano accompagnato durante la seconda guerra mondiale, particolarmente quando venne rinchiuso nel lager di Birkenau (Auschwitz 2). Era giovane, l’unica sua colpa era di essere un cittadino polacco, popolazione che invece Hitler voleva far scomparire dalla faccia della terra. Nel centro di sterminio era diventato un numero. Sopravvisse.

Per lunghi decenni rimase in silenzio, vivendo una nuova vita con la famiglia che si era costruito. Ma venne il giorno in cui la memoria del passato divenne forte e straripò dalla sua anima. In Germania c’erano scuole superiori che richiedevano la voce dei testimoni della persecuzione nazista nei lager della morte. Era per formare e informare le nuove generazioni su ciò che era stato vissuto e che non si doveva mai più ripetere nel futuro. Per anni disse di no, non si sentiva ancora pronto, il passato bruciava dentro. Ma un giorno si sentì forte e sereno e rispose che sarebbe andato, perché i giovani, come i suoi figli, dovevano sapere cosa lui aveva sofferto.

Dal 2000 in poi, andava ogni anno in Germania per un mese nelle scuole tedesche a portare la sua testimonianza di sopravvissuto al nazismo. Era molto contento di questo suo servizio ai giovani e al futuro di pace e fraternità delle nuove generazioni. Di fronte alla sua testimonianza cadevano le domande, i dubbi, le perplessità. Lui era un vissuto vivente. Un vissuto sereno e forte, un vissuto diventato così grazie alla sofferenza patita. Ritornava ogni volta a casa entusiasta, cosciente che il suo vissuto avrebbe formato nuove generazioni di pace e fraternità.

Io pure lo ascoltai più volte, serbando nel cuore le parole di fuoco che uscivano dall’anima di questo uomo sopravvissuto all’Olocausto del secolo scorso. Mi diceva: “Se sono sopravvissuto non è perché ero migliore, era perché sapevo rubare un tozzo di pane a chi ce l’aveva. Non sono stato come Massimiliano Kolbe. Io ho cercato disperatamente di vivere. E rubare una patata spelacchiata voleva dire vivere un giorno di più, forse raggiungere un domani la libertà e la dignità che mi spettava”.

La formazione degli anni giovanili nell’AC l’aveva sostenuto in quegli anni terribili. E la sua fede era uscita fortificata da quel Calvario inenarrabile. Soltanto verso l’anno 2005, accettò un giorno di fare un pellegrinaggio a Birkenau e a Oświęcim – Aushwitz – per rivedere i luoghi dove aveva vissuto. A Birkenau non era rimasto più nulla, ma lui ricordava esattamente dove era posizionata la sua baracca, dove andava a lavorare, dove dormiva, dove aveva pianto e chiesto disperatamente aiuto al Signore per sopravvivere in quell’inferno, che lui però ricorda anche come luogo di umanità, grazie alla baracca in cui erano rinchiusi circa 1.000 sacerdoti cattolici polacchi, che nonostante tutto l’avevano aiutato a sperare, a continuare a pregare, a sognare la libertà. “Ce la farai, tu sei giovane, devi vivere” – gli dicevano.

Negli anni ’90, nel clima di libertà che si era instaurato, aveva voluto ricreare l’AC adulti nella sua parrocchia, che era anche la nostra. Era un forte testimone di fede. A lui si sostituì negli anni, quando si ammalò, Dorota con suo marito. E l’AC continuò il suo cammino formativo.

Un giorno sua moglie ebbe un incidente stradale da cui si riprese con tante difficoltà, ma lui l’accudiva con tanto amore. I figli erano sposati e lontani. Nel 2009 entrò nella Pasqua eterna, “ricco di opere buone”.

Sr. Maria Rosa Venturelli, missionaria comboniana

* Sr. Maria Rosa Venturelli, missionaria comboniana. Ha lavorato per 12 anni in Zaire (attuale Repubblica Democratica del Congo) e 10 anni in Polonia. Autrice di Terra e Missione

Foto: Jacek Proszyk / CC BY-SADescrizione: Jerzy Kamieniecki (nato nel 1920) Prigioniero di Auschwitz, Birkenau, Matthausen, Gusen mostra un tatuaggio con il numero del campo.

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