La “Repubblica del ponte”: storie di migrazione e speranza al confine tra Brasile e Perù

Storie di vita e di speranza dei migranti bloccati sul ponte che attraversa il fiume Acre, al confine tra Brasile e Perú

A cura dell’Equipe Itinerante nelle zone di frontiera tra Perù, Brasile e Bolivia*

L’orologio segna le tre del mattino e Soró è riuscito a malapena a dormire. È molto in ansia per l’organizzazione del cammino di un gruppo di 380 migranti. Forse è anche la tipica angoscia che precede sempre ogni cambiamento.

Soró è nato in Costa d’Avorio ma da qualche anno si trova in Brasile. È in questo Paese che ha incontrato Jeany, una donna haitiana, e insieme a lei hanno costruito una bella famiglia.

I migranti si spostano in piccoli gruppi, dalla città di Assis fino al ponte. La distanza è di circa due chilometri e loro devono trovarsi lì, proprio su quel ponte, all’alba. Si dice che oggi apriranno la frontiera e così potranno finalmente continuare il loro viaggio verso i paesi del nord. Molte famiglie aspettano questo momento da giorni. Sono fermi ad Assis con la speranza di poter continuare presto il loro viaggio.

Eccoli sul ponte. Per organizzarsi si dispongono in tre file e lasciano gli zaini uno dopo l’altro. In questo modo risparmiano tempo per attraversare la frontiera tra Brasile e Perù. Sono guidati da un piccolo gruppo, che si avvicina ai militari di guardia in quel momento. Li informano che devono aspettare l’arrivo dell’Alto Comando. E loro si attengono alle indicazioni.

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È iniziata così la crisi migratoria che da più di tre settimane interessa lo Stato di Acre, in Brasile, e la regione di Madre de Dios, in Perù. Nel mezzo c’è un ponte sul fiume Acre, curiosamente chiamato “Ponte dell’integrazione”. I migranti haitiani e africani vogliono lasciare il Brasile, colpito dalla crisi economica ma anche da quella prodotta dalla cattiva gestione della pandemia di Covid-19 da parte di Bolsonaro.

Il gruppo iniziale era composto da 380 persone, molte delle quali erano famiglie complete con i loro figli più piccoli. Il numero è poi salito a quasi 700. Foto: Equipe Itinerante
Il gruppo di migranti, inizialmente composto da 380 persone. Foto: Equipe Itinerante

Parliamo con i migranti, che ci raccontano le loro storie, e troviamo tra loro tre denominatori comuni. Il primo riguarda il loro arrivo, avvenuto in due grandi ondate: una dopo il terremoto del 2010, che ha devastato Haiti; l’altra prima della Coppa del Mondo del 2014. Hanno in comune anche la perdita del lavoro a causa della pandemia e della crisi economica. E per trovare i soldi necessari al viaggio, hanno venduto (quasi) tutto: letti, TV, cucina, piatti, bicchieri…

La vendita dei beni materiali, così come alcuni piccoli risparmi e il denaro preso in prestito dai parenti, sono la loro “assicurazione di viaggio”, che gli consentirà di iniziare un cammino lungo migliaia di chilometri verso nord.

Il terzo denominatore è quello che tutti, assolutamente tutti, vogliono dal Perù: “Eu só quero pasar (Voglio solo passare)”.

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Quando, il 14 febbraio, si diffonde la voce che è possibile attraversare il confine, l’attesa diventa eterna. I migranti cominciano a spazientirsi. Hanno aspettato per troppe ore sotto la pioggia e il sole. I bambini non sopportano la fame e iniziano a piangere. La polizia chiede loro i passaporti, dicendo di voler fare una lista per dare seguito alla loro richiesta. I migranti ribadiscono di voler unicamente attraversare il Perù, suggerendo anche di scortarli su degli autobus fino al confine con l’Ecuador, se la loro paura è il contagio da Covid -19.

L’attesa continua. La notte si avvicina. Decidono di dormire, ancora una volta sul ponte. La loro idea non cambia: devono passare attraverso il Perù.

Molte persone, soprattutto uomini, vivono sul ponte vivendo in condizioni precarie. Foto: Equipe Itinerante
Tante persone vivono la loro attesa sul ponte in condizioni precarie. Foto: Equipe Itinerante

È martedì 16 febbraio. Dopo molta attesa, stanchezza e l’ascolto di ripetute bugie e false speranze da parte delle autorità, i migranti decidono di entrare con la forza in Perù. Scoppia la violenza. Vengono anche usati gas lacrimogeni per disperderli e dissuaderli dall’avanzare. La polizia peruviana mostra il suo lato più violento, picchiando uomini e donne, alcune delle quali incinte. Anche diversi bambini vengono picchiati. Con questa durezza, la polizia riesce a respingere un buon gruppo di uomini verso il ponte. Dividono il gruppo di 380 migranti. Anche le famiglie vengono divise. È così riescono a non farli partire e a riorganizzarsi. Un grande gruppo viene condotto allo stadio di Iñapari, la prima città peruviana dall’altra parte del ponte. Da lì, la stessa polizia è incaricata di fare diversi viaggi per il trasferimento e l’espulsione dei migranti, ancora una volta, verso il territorio brasiliano.

A Iñapari sono quattordici le persone che necessitano di cure. Qualche livido, angoscia, asfissia… Il comando della polizia peruviana arriva sul posto e, nonostante gli operatori sanitari continuino a curarli, costringe tutti a salire sulle auto di pattuglia per essere espulsi dal Perù.

Uno dei poliziotti il giorno dopo ammetterà che la forza usata è stata eccessiva. Confessa che in quel momento si è ricordato della sua famiglia e disapprova le azioni della sua stessa istituzione.

Dopo quel tentativo fallito di ingresso in Perù, il paese vicino rinforza la sua frontiera. Centinaia di truppe, arrivate da vari luoghi, fanno da scudo al passaggio della frontiera. Nessuno straniero potrà entrare finché dura lo stato di emergenza.  Da parte dei migranti, si susseguono giorni e settimane di calma. È chiaro che se vogliono raggiungere il nord, dovranno cambiare la loro strategia. Inaspettatamente, il campo sul ponte si sta organizzando. Tierno, un migrante haitiano, ci dice una sera: “Vogliamo lasciare la Repubblica del Brasile, la Repubblica del Perù non ci vuole, quindi fonderemo la Repubblica del Ponte”. Questa dichiarazione esprime la ferma convinzione che, se necessario, i migranti resteranno a bloccare il ponte fino all’apertura delle frontiere. A quel punto, i camion di merci si contano già a decine su entrambi i lati del ponte. E i migranti insistono: i camion non sono più importanti di loro. Se vogliono che passi un camion, devono far passare 10 migranti.

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Nei giorni seguenti, le scuole di Assis, che fungono da rifugio, si riempiono. Il numero di migranti raggiunge quota 670. Un numero molto alto per una piccola città come Assis con poche migliaia di abitanti. Il Personale della Direzione dell’Assistenza Sociale della Prefettura non smette di assistere, organizzare e prendere risorse da dove non ce ne sono. Forniscono cibo quotidiano e assistenza sanitaria. Johana, Bruno, Sandro, la squadra di cuochi… Tutti moltiplicano i loro sforzi e, lungi dal criticare la situazione, la vedono come un’opportunità per crescere, per rafforzarsi, per servire.

Allo stesso modo, Joaninha, Óscar, Paco, César, Clarice, Hernique, Francinete, Junião, Pavel… dalla Chiesa cattolica non smettiamo di andare al ponte e ai rifugi per accogliere, essere solidali, ascoltare. Per essere una presenza gratuita in mezzo a questa realtà.

Lì, in quello spazio, senza attraversare la frontiera o viaggiare per migliaia di chilometri, facciamo il nostro itinerario interiore. È quell’itineranza che inizia ascoltando le storie di vita di tante persone che fuggono dalla miseria, dallo sfruttamento, o ascoltando i loro sforzi per raggiungere un’alba per sé e per la propria famiglia.

Maria, una donna haitiana, racconta la sua storia alla polizia che sorveglia il confine. Foto: Equipe Itinerante.
Maria, una donna haitiana, racconta la sua storia alla polizia che sorveglia il confine. Foto: Equipe Itinerante.

Per percorrere questo itinerario è necessario imparare ad attraversare le proprie frontiere mentali o affettive, senza giudicare, senza guardare attraverso le proprie lenti, senza condannare… ma con lo sguardo e la parola che accoglie, con il sorriso complice, con il gioco divertente dei bambini. In questo modo si formano i legami che uniscono l’umanità. Questo è ciò che abbiamo imparato anche come squadra di missione. Molti di loro non si conoscevano, venivano dalla stessa realtà, dallo stesso Paese o continente, ma senza conoscersi sono riusciti a creare un gruppo, intorno a un sogno legittimo di andare avanti per crescere.

Abbiamo viaggiato internamente insieme ai migranti, con l’emozione, la tenerezza negli occhi, il sorriso pronto, la fiducia costruita, la gioia di vedersi un altro giorno, salutarsi pugno contro pugno e poi mettere il proprio pugno nel cuore, in segno di rispetto.

Rispetto per i migranti: siamo tutti fratelli e sorelle.

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I giorni continuano a passare. Di fronte all’impossibilità di attraversare il ponte, è necessario reinventare il piano. I migranti mostrano i piani A, B e C. Uno di questi consiste nell’attraversare la frontiera illegalmente, pagando un “coyote” (trafficante).

Questa pandemia ci mostra ogni giorno che le frontiere servono anche a creare e a rafforzare le reti del traffico di esseri umani. Le mani dell’avidità hanno intascato, in quest’ultimo anno, migliaia e milioni di dollari. E allo stesso tempo, hanno rivelato il razzismo e l’ipocrisia delle società.

Con i migranti haitiani e gli africani, è stato dimostrato quanto la visibilità moltiplichi il prezzo. Quello che un bianco o un meticcio paga per attraversare un fiume o viaggiare in autobus si moltiplica per una persona di colore. In questi giorni sentiremo, con dolore, rabbia e tristezza, i molteplici abusi a cui vengono sottoposti.

Passano giorni e giorni, alcuni migranti vedono fallire i piani A, B o C, mentre altri (non neri) risolvono il problema rapidamente e riescono ad attraversare il confine illegalmente.

Ancora una volta i migranti rimasti manifestano pacificamente, chiedendo che lascino loro attraversare il ponte. Il comandante militare chiede loro di non pagare i coyote per non correre il rischio di essere ingannati. Ed ecco la coraggiosa denuncia dei migranti: dicono che “è anche la polizia stessa a chiedere loro dei soldi per farli passare, mostrando come l’ipocrisia venga mascherata da un decreto presidenziale che chiude le frontiere, ma che lascia le tasche e i portafogli della polizia aperti per ricevere dollari dal sudore haitiano e africano”.

I migranti bloccati in Brasile chiedono di entrare in Perù
I migranti bloccati in Brasile chiedono di entrare in Perù. Foto: Equipe itinerante

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Wilsmany Alexis era una di quelle decine di donne. Non sappiamo se aveva dei figli, se era di Port-au-Prince o quale cibo le piaceva di più. Non sappiamo quale musica aveva sul suo cellulare o cosa le piaceva ascoltare. Non sappiamo con chi ha viaggiato, né da dove veniva, né dove voleva andare. Sappiamo che è morta di Covid-19 a Rio Branco, capitale dello Stato di Acre.

Sappiamo che è morta da sola, forse con l’affetto di una carezza di un’infermiera. Sappiamo che aveva 30 anni e che aveva ancora molto da vivere. Sappiamo che un cugino la stava aspettando da qualche parte, in un punto che si estende da Haiti agli Stati Uniti, passando per tutto il Sud e Centro America.

Sappiamo che simboleggia i migranti anonimi che muoiono sulla strada sterrata, sulle rotaie, nelle acque del Mediterraneo o al largo delle isole Canarie: honduregni, senegalesi, salvadoregni, ivoriani, mauritani, togolesi, nigeriani… Che lasciano dietro di loro un passato di dolore, povertà e sfruttamento. Camminano, guardando l’orizzonte, con fiducia in un futuro migliore.

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Attraverso queste righe vogliamo ringraziare i migranti per averci sensibilizzato, per aver potuto vedere la resilienza nei vostri occhi, per quella vitalità e gioia che emanate, per quella determinazione, abbiamo imparato con voi. Grazie Soró. Grazie Maria. Grazie Laura Victoria. Grazie Nelsón. Grazie Valdemir. Grazie Jean. Grazie Sefiou. Grazie Komla. Grazie Solangie. Grazie Belangie. Grazie Osmandiel. Grazie Paula. Grazie Jeany. Grazie anche a voi, che non abbiamo mai saputo il vostro nome… perché avete smesso di essere volti anonimi per essere amici nella lotta per renderci più umani, più fratelli e sorelle, più sensibili.

Gli auguriamo tanta forza sulla strada quanta ne hanno data a noi in questi giorni. Forza perché possano arrivare dove vogliono e con le loro mani lavorare per il loro legittimo futuro. Ci saranno sempre frontiere, sotto forma di razzismo e pregiudizi, che dovranno attraversare.

La “Repubblica del Ponte” è durata dal 14 febbraio all’8 marzo. Sono tre brevi settimane. Ma la “Repubblica dei migranti sulla strada” continua e continuerà ad esistere nelle migliaia di migranti che rischiano e camminano portando lo slogan sulle labbra: “Eu só só quero pasar” (Voglio solo passare).

Perché sicuramente passeranno e arriveranno a destinazione.

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*L’equipe itinerante che lavora sulla triplice frontiera Bolivia-Perù-Brasile fa parte della Rete Itinerante della Rete Ecclesiale Pan-Amazzonica (REPAM). È un impegno inter-congregazionale e inter-istituzionale che lavora in Amazzonia da più di 20 anni. Attualmente ha due nuclei, uno a Manaus (Brasile) e l’altro nella tripla frontiera Bolivia-Perù-Brasile.

** Traduzione dallo spagnolo a cura di Anna Moccia

© Riproduzione riservata

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