“Uomo, dove sei?” Suor Monica Neamţu racconta la missione nel Tigray in guerra

Lettera di suor Monica Neamţu, Suora della Carità da quasi tre anni in missione a Shire, nel Tigray.

Uomo, dove sei? In questi giorni questa domanda risuona forte dentro il mio cuore. Sono una suora della Carità, mi chiamo Monica e da quasi tre anni la mia comunità e missione si trova a Shire, regione Tigray, in Etiopia. Quando sono arrivata, regnava la pace e niente segnalava “la tempesta della guerra”. Sì, si sentiva che c’erano tensioni tra il governo nazionale e il governo del Tigray, si vedeva che tanta gente, che prima viveva in altre regioni del Paese, stava rientrando nella regione. Ma tutto qui. Almeno fino al 3 novembre.

Nella notte del 3 novembre rimaniamo senza luce e senza telefono. Queste cose capitavano qualche volta. Poi al mattino del giorno seguente abbiamo appreso la notizia: “Guerra civile”. Sono nata in tempi di pace perciò non avevo la più pallida idea di cosa mi sarei dovuta aspettare. Tutta la regione del Tigray viene bloccata, dopo luce e telefono scopriamo che anche le banche sono chiuse. Tutto fermo e noi là, ferme. Questa è la mia esperienza di guerra.

Si comincia a veder arrivare in città tantissime persone sfollate che vivevano nelle città vicine alla regione di Amhara – come Humora e tante altre. Arrivano così in tanti che dormono sulla strada, sotto gli alberi. E la gente della città cerca di raccogliere un po’ di cibo per venire in loro aiuto.
Allo stesso tempo si sente tanta confusione, perché la gente continua a muoversi di qua e di là, completamente disorientata, pensando di trovare un luogo sicuro, ma si sente che i soldati hanno accerchiato la regione e che la loro meta è Mekelle, la capitale del Tigray dove era la sede dei leader della regione.

Gente impaurita, gente disorientata, gente che riempie le strade: una realtà visibile sulle strade della città per più di una settimana. Poi il 16 di novembre, si sono fatti sentire i suoni dei bombardamenti, segno che la guerra si faceva vicina a Shire; la gente, che prima riempiva le strade, inizia a diminuire. Il giorno 17, nel silenzio del mattino, sentiamo passare delle bombe sopra la nostra casa.

Dove cadranno? Dove andare? Poi silenzio. Arriva una guardia e ci invita a scappare per salvarci. Tutta la gente della città stava sparendo, scappava per nascondersi sperando di salvarsi (chi in montagna, chi nei villaggi vicini, solo Dio lo sa). Ma noi… dove andare? Si poteva trovare un luogo sicuro in questa situazione? Poi di nuovo silenzio, un silenzio di tomba e si aspetta, cosa? Dio lo sa. Poi di nuovo qualche bomba si sente volando. Intorno alle 10 ecco passare i primi carri armati, i primi di una lunga fila, seguiti da soldati.

Per più di una settimana abbiamo visti passare a più non posso. Per quasi due giorni non abbiamo visto quasi nessuno muoversi sulla strada. Poi timidamente la gente della città comincia ad uscire. Si fa vedere anche qualche collaboratore del nostro “health center” (un piccolo ospedale che accoglie ogni giorno almeno 300 persone, in tempi normali), scoprono che siamo in vita e scopriamo che sono in vita. E ci si decide, anche da subito, di riaprire e mettersi al servizio della gente, specialmente le donne incinte.

Veniamo a sapere anche dei tanti cadaveri intorno a delle chiese, che per giorni sono rimasti là abbandonati e non seppelliti. Uscire fuori per la gente voleva dire rischiare la vita. E i soldati federali hanno preso possesso di Shire. La gente, se si può dire così, si sentiva un po’ sollevata perchè da noi si trovavano solo i soldati federali e non quelli dall’Eritrea. La gente ha terrore degli eritrei, temono anche solo il loro nome. E la loro paura è ben motivata (la storia del conflitto tra i due Paesi non è poi così lontana).

Stare là, in quella situazione, è stata una sfida e continua ad esserlo. Non è facile vedere o, meglio, prendere parte a questa terribile storia dove l’uomo alza la mano contro l’altro uomo che è suo fratello nel nome della giustizia.

Come non vedere e non sentire la disperazione della gente che per scappare di fronte alla morte si mette in cammino a piedi per giorni senza più niente e affrontando tutti i pericoli della situazione?

Come non sentirsi coinvolte dal dolore di tanta gente che non riesce a raggiungere i propri cari e così non sapere se sono vivi o morti?

Si può rimanere indifferenti di fronte alle tante donne incinte che non trovavano un luogo sicuro dove dare alla luce il loro neonato e che per giorni e notti si sono trovate in mezzo alla strada?

Come non sentirsi toccare nel vedere come la gente, per poter trovare un medico, fa ore a piedi (perché le macchine non camminano) portando il loro malato sulle spalle, con “un letto” fatto di qualche asse di legno o per chi è più fortunato con l’asino e la carriola?

Sembrava di tornare indietro nel tempo e vedere la gente al tempo di Gesù. Come non sentirsi turbato di fronte alla gente che ti viene ad implorare per ricevere qualcosa da mangiare per sopravvivere?

Ed è straordinaria la gioia di questi momenti, nel ritrovare le persone di cui per lungo tempo non sapevi se erano in vita o no. Loro scoprivano che eravamo in vita e noi facevamo la stessa scoperta, di vivere il miracolo di essere vivi, anche se la situazione non ci garantiva niente. Si vive, non giorno per giorno ma momento dopo momento. E ringrazi ogni giorno Dio perche anche “oggi” e anche “oggi” … sei vivo.

La gente del Tigray usa rispondere “Grazie a Dio” alla domanda “Come stai?” Lo faceva prima della guerra e continua a farlo anche oggi. E questa storia continua anche oggi, dopo sei mesi che questa guerra è cominciata. Si spera sempre che forse domani finirà, e nello stesso tempo si vive nell’incertezza del peggioramento e del non sapere per quanto tempo ancora.

Anche oggi continuano ad arrivare tanti sfollati che riempiono la città. Anche oggi mentre scrivo queste poche righe della mia esperienza, l’uomo viene sempre più calpestato nella sua dignità, annullato, abusato, maltrattato fino al punto della morte e anche dopo. Perciò faccio mia la domanda: Uomo, dove sei? Dov’e la tua dignità di persona umana? Dov’e la tua umanità? Questo e un po’ del mio vissuto a Shire. Il tutto non si potrà mai esprimere. Ciò che ho sentito profondamente e che ha scosso me come persona, rimane là come tesoro della mia storia con l’uomo e con Dio, in questo momento storico del Tigray.

Sr Monica Neamţu, sdc

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