È ancora tempo di sperare?

La speranza dell’Avvento per un tempo difficile. Editoriale di Teresina Caffi*, missionaria Saveriana e biblista

Charles Péguy la chiamava la fanciullina in mezzo alle sue due sorelle maggiori, la fede e l’amore. È lei che ci prende per mano e che ci conduce, con la follia dei bimbi, verso mete inevidenti. «La speranza è una fanciullina da nulla. / Che è venuta al mondo il giorno di Natale dell’anno scorso. /… Lei sola, portando le altre, che traverserà i mondi compiuti. / Come la stella ha guidato i tre re fin dal fondo dell’Oriente. / Verso la culla di mio figlio. / Così una fiamma tremante. / Lei sola guiderà le Virtù e i Mondi. / Una fiamma bucherà delle tenebre eterne» (www.gliscritti.it/preg_lett/antologia/speranza.htm).

Per mancanza di certezze, molti preferiscono oggi ridurre le attese a un orizzonte umano possibile: una lunga vita, la salute, la ricchezza, il successo, l’amore, anche un cambiamento sociale. È ciò che i francesi chiamano “espoir”, in rapporto a una speranza ultraterrena che chiamano espérance. “Sarebbe bello poter sperare a realtà oltre questa vita, ma come farlo, senza certezze?”, dicono alcuni. Meglio stare sul sicuro accontentandoci delle bellezze di questo mondo.

La speranza è qualcosa di proprio alla fede biblica. Nel mondo greco il futuro si concepisce come un continuo ritorno, come il ciclo delle stagioni. Alla guerra succede la pace, ma poi di nuovo ci sarà guerra. E non è difficile trovare conferme nella storia.

Con il popolo ebreo, il cerchio si spezza e diventa una linea retta, orientata da una promessa: quella ad Abramo, passata attraverso Mosè, i re, i profeti… una promessa che, per la sua mancata o insufficiente concretizzazione storica, viene continuamente spostata in avanti fino a diventare attesa di un Regno che Dio stesso inaugurerà.

Quel Regno, Gesù lo annuncia vicino fin dall’inizio del suo ministero (Mc 1,15). Esso ormai ha oltrepassato gli orizzonti geografici e temporali per spalancarsi sull’eternità: non li esclude, ma li include. Gesù inizia il suo ministero leggendo il profeta Isaia e commentando: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21). Quella che i poveri si erano tramandati di generazione in generazione, che annunciava il giorno del riscatto, della dignità, del perdono. A loro appartiene il Regno (Mt 5,3), che abbraccia, come i verbi delle beatitudini, un presente e un futuro: c’è già e non ancora, come un bimbo nel grembo, come il grano che cresce. È su questa speranza in atto e in itinere che Gesù gioca la sua vita, credendovi al di là dell’apparente fallimento. Perché Dio è fedele.

È per dare carne a questa speranza che il Padre invia il Figlio suo fra noi. La sua divinità nella nostra umanità, per sempre associate, immette nel mondo una forza rivoluzionaria, una spinta propulsiva verso il Regno, nonostante il perdurare di ciò che vi è ostile e che sembra essere preponderante.

C’è una particolarità nel significato biblico della speranza: essa conta non su di sé, ma su Dio che promette e che è fedele nel suo amore incondizionato e gratuito. Essa è al contempo l’oggetto sperato. Non è qualcosa che dal presente va verso il futuro, ma che dal futuro viene al presente e che attira a sé la nostra esistenza.

Tale significato è bene espresso da uno dei verbi ebraici che dicono “sperare”: il verbo qiwwālt, che significa essere teso, attendere ardentemente. Esso ha nel suo ceppo il termine qaw che significa il filo a piombo usato dai costruttori. Il peso ad un’estremità tende la corda. Così, la speranza è quel «peso» di vita, di gioia, di pienezza che ci è già riservato, che ci è stato dato in Gesù, e che attira la nostra vita, dandole una direzione, perché non sia uno sbandare a destra e a sinistra, come fa la corda lasciata a sé stessa.

La speranza cristiana è lasciarsi calamitare dalla promessa di Dio. In questa attesa di Natale possiamo regalarci spazi per guardare oltre gli impegni immediati e rifocalizzare la direzione della nostra vita, lasciandoci attrarre da questo tesoro di cui qui percepiamo solo gli inizi. Allora sapremo riconoscerlo iniziato, allora la nostra gioia sarà salda.

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suor Teresina Caffi, missionaria di Maria - Saveriana

Missionaria saveriana, Teresina Caffi è nata nel 1950 a Pradalunga (BG), entra ventunenne fra le missionarie di Maria – Saveriane, a Parma. Licenziata alla Gregoriana in teologia biblica, ha svolto la sua missione prima in Burundi e poi nella Repubblica Democratica del Congo, dove si reca sei mesi l’anno per corsi.

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