Il Giorno della Memoria del 27 gennaio si celebra sotto tinte fosche, in un quadro internazionale segnato dall’orribile attacco di Hamas del 7 ottobre. Chi è l’essere umano? E come può giungere a questi abissi? Su terraemissione.it la riflessione di Teresina Caffi, missionaria di Maria – saveriana e biblista.
Da diciannove anni, per iniziativa dell’ONU, viene celebrata il 27 gennaio la Giornata internazionale della Memoria. Quella data, nel 1945, vide l’ingresso delle truppe russe nel campo di sterminio di Auschwitz e divenne simbolo della fine dell’Olocausto, dello sterminio da parte del regime nazista di circa sei milioni di Ebrei, e anche di migliaia di Rom, testimoni di Geova, omosessuali e civili, cristiani e no, considerati oppositori del nazi-fascismo.
Guardare da vicino quel tempo buio dell’umanità, visitare i luoghi, ascoltare o leggere le testimonianze dei sopravvissuti è fondamentale. «La Shoah non va dimenticata – ha scritto papa Francesco in Fratelli tutti -. È il simbolo di dove può arrivare la malvagità dell’uomo quando, fomentata da false ideologie, dimentica la dignità fondamentale di ogni persona» (n. 247).
Ripercorrere quei giorni, quegli anni significa porsi domande fondamentali, forse senza risposta: chi è l’essere umano? Come può giungere a questi abissi? Primo Levi si chiedeva dov’era l’uomo. Da Auschwitz nasce una antropologia diversa da quella tronfia che vede nella tecnologia il segno di un perfezionamento umano continuo e senza limiti. Ci si chiede anche, percorrendo i secoli, fin dove può portare il pregiudizio, l’orgoglio delle proprie convinzioni anche di fede, la frustrazione, la denigrazione dell’altro.
Weisel, come tanti, si chiedeva dov’era Dio. Dopo Auschwitz l’immagine di Dio non poteva più essere quella di un Dio potente. Nel suo morire crocifisso in Gesù, Dio rivela la sua potenza nel condividere l’impotenza delle vittime e portarvi una luce di speranza.
Giorno dunque di ricordo, di informazione, di silenzio, di domanda sulle nostre complicità storiche e sui nostri attuali pregiudizi. Giorno per chiedere perdono. Il dramma che si sta svolgendo da oltre tre mesi in Israele e Palestina non toglie nulla all’importanza di questa giornata. Una tragedia non annulla un’altra tragedia e non solo per le diverse circostanze e proporzioni.
La giornata va dunque celebrata pienamente, convintamente. Proprio per quello che questa giornata insegna, per l’enorme fiume di dolore che per troppo tempo si lasciò scorrere, è necessario tuttavia che usciamo dal silenzio, dall’imbarazzo su quanto sta avvenendo in questi giorni in questa terra dai tanti nomi. È necessario che non ci lasciamo indurre in errore da chi confonde un gruppo violento con tutto un popolo e descrive oggi decine di migliaia di morti come un bene, una liberazione per le vittime. Da chi pensa che il terrore si può vincere con un terrore più forte.
Nulla può giustificare la carneficina cui stiamo assistendo in risposta all’orribile attacco di Hamas del 7 ottobre. Non c’è pace senza giustizia, e la giustizia è stata a lungo negata a un popolo che non è responsabile della tragedia storica del popolo ebraico. No, la soluzione non può essere una dispersione di questo popolo nel mondo come un giorno fece l’imperatore Tito con il popolo ebraico.
Il 27 agosto 2003, il card. Carlo Maria Martini, appassionato frequentatore di queste terre, scriveva: «Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta. Ma se la memoria del dolore sarà anche memoria della sofferenza dell’altro, dell’estraneo e persino del nemico, allora esso può rappresentare l’inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace».
Non pochi ebrei d’oggi sono contrari alla sistematica aggressione del popolo palestinese in atto dopo il 7 ottobre, ma non riescono a muovere le folle per dire insieme: «Basta! In nome del dolore già vissuto, basta! Percorriamo le vie del diritto e della giustizia! Non usiamo la Scrittura per legittimare i nostri progetti e la nostra violenza!».
Hadar Morag, regista israeliana, testimonia: «Quando mia nonna arrivò qui, dopo l’Olocausto, la Jewish Agency le promise una casa. Non aveva niente, tutta la sua famiglia era stata sterminata. È rimasta in attesa per lungo tempo in una tenda, in una situazione estremamente precaria. La portarono quindi ad Ajami, a Jaffa, in una stupenda casa sulla spiaggia. Vide che sul tavolo c’erano ancora i piatti degli arabi che ci abitavano e che erano stati cacciati via. Allora lei tornò all’agenzia e disse: riportatemi nella tenda, non farò mai a qualcun altro ciò che è stato fatto a me. Questa è la mia eredità, ma non tutti hanno fatto quella scelta. Come possiamo essere diventati quello che avversavamo? Questa è la grande domanda».
Come persone, come popoli in qualche maniera implicati nella storia tribolata di queste terre, è doveroso per noi impegnarci perché il «mai più» del 27 gennaio diventi vero anche oggi e per qualunque popolo.
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