Padre Armanino dal Niger: «La libertà comincia con un no»

Schiavitù e libertà. Nuova riflessione di padre Mauro Armanino, missionario della Società delle missioni africane (Sma) a Niamey, capitale del Niger

C’è stata la tratta atlantica ma prima ancora quella araba verso il Nord Africa e la costa orientale. Gli schiavi sono coloro che, spossessati della loro dignità umana, sono ridotti a cose o strumenti senza volontà propria. Le guerre, le razzie, le violenze generazionali hanno reso la schiavitù parte della configurazione delle società. Ad ogni epoca i propri schiavi. La nostra non è da meno di quelle che ci hanno precededuto e di cui abbiamo raccolto e sovente perfezionato l’eredità.

La schiavitù dei corpi è particolarmente violenta perché si iscrive nelle fibre che ci costituiscono e si diffonde allo spirito, alle relazioni e a tutto ciò che costituisce la complessità della vita. Schiavi nelle menti e nelle parole che della schiavitù diventano espressione grammaticale. Schiavi della violenza armata che traduce la violenza ideologica, la peggiore delle violenze, perché generatrice del più grande tradimento, quello della realtà.

La perversione della realtà e dei volti umani che la costituiscono genera la riduzione dell’altro a oggetto, simbolo o rappresentazione del nemico da abbattere o eliminare. Schiavi della paura di pensare, parlare, scegliere, manifestare o semplicemente vivere da umani. Schiavi del potere, del successo, della grande divisione tra l’apparire e l’essere, tra la menzogna e la verità, tra il pensiero e la parola. Schiavi bambini nelle miniere che permettono all’economia del numerico di funzionare e all’energia ‘verde’ di prosperare. Schiave sessuali sulle strade delle città europee che arrivano dal continente africano e da altre parti del mondo.

Promesse, illusioni, pressioni famigliari, competizioni economique, ignoranza, sete di guadagno facile, reti criminali e complicità politiche. Questo e altro riproducono le moderne schiavitù che attualizzano quelle antiche. Le schiavitù sul lavoro, vero e proprio terreno di sfruttamento che evidenzia la suddidanza di classe. Le schiavitù etniche, culturali, famigliari e identitarie che sono funzionali al mantenimento delle relazioni di potere.

Le servitù, invece, hanno qualcosa di particolare. Ad appena sedici anni Etienne de la Boetie, scrive uno dei testi più radicali sui meccanismi della dominazione politica. Secondo lui, se il popolo è oppresso, la colpa non è dei tiranni ma del popolo stesso. Questo meccanismo porta un nome: la servitù volontaria. Si abdica alla propria e innata sovranità per paura, convenienza, interesse o forse perché, nella propria vita, non si è conosciuto altro che la servitù, trasformatasi poi in ‘abitudine’ (habitus). Si vive da servi, si pensa da servi, si agisce da servi, si sogna da servi e ci si accontenta di quanto la servitù possa offrire di meglio.

Il pensiero addomesticato, il politicamente corretto, la strategia della bandiera che cambia direzione col vento, nascono da un pensiero e una vita gregaria. Servi del sistema, del potere, della moda di contraffare la storia quotidiana, l’attitudine a ‘strisciare’ per evitare di prendere posizione, la codardia di mettersi dal lato dei vincitori, l’adesione a precetti religiosi per addomesticare l’insurrezione disarmata. Questo e altro addestrano il soggetto alla servitù volontaria. L’obbedienza cieca al capo ne diviene il segno rivelatore.

La libertà comincia con un no. Il rifiuto ha sempre costituito un gesto essenziale. I santi, gli eremiti ma anche gli intellettuali, il piccolo numero di persone che hanno fatto la Storia, sono coloro che hanno detto no, mai i cortigiani o i valletti dei cardinali. Per essere efficace, il rifiuto dev’essere grande e non piccolo, totale e non su questo o un altro punto. Questo scriveva Pier paolo Pasolini sulla ‘Stampa’ nel 1975, un millennio differente dal quello nel quale ci troviamo oggi.

Appena dopo il rifiuto arriva però il sì nuziale alla vita intesa come straordinaria avventura dell’impossibile. Il sì alle scelte di parte degli oppressi e al camminare accanto e dentro ai poveri, per fare strada assieme. Il si all’eresia che solo dalla debolezza e dalle periferie scaturirà l’unica speranza possibile per l’umano. Un sì migrante che attraversa frontiere e crea inediti percorsi di umana convivialità. Un sì alla mani nude, ai volti scoperti, alla parole vere che spuntano come fiori nel mare, alla follia delle sconfitte che trasformano il pianto in risurrezione, al silenzio che accarezza il vento, amaro, della libertà.

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